Uomo/computer (interazione) |
Il problema dell'interazione uomo/computer nasce a metà degli anni '80 del secolo scorso con la diffusione del personal computer. In precedenza, raramente si erano presentate difficoltà nell'uso dei computer perché essi erano utilizzati o dagli scienziati che li avevano costruiti oppure da persone che possedevano le conoscenze informatiche necessarie per farli funzionare; i computer erano oggetti tecnologicamente complessi, con cui interagivano soltanto degli specialisti. La comparsa sulla scena del personal computer creò una situazione inedita: persone con scarsa o nulla preparazione informatica iniziarono a usarlo per attività che non erano di ricerca scientifica e tecnologica, ma appartenevano all'area della vita quotidiana, come scrivere documenti, archiviarli, preparare grafici e tabelle. Il fatto che queste persone usassero - spesso dovessero usare - uno strumento sconosciuto e complesso creò una vera emergenza personale e sociale. Molti rischiarono di perdere il lavoro, o di essere retrocessi, perché incapaci di padroneggiare i nuovi strumenti informatici che le direzioni aziendali introducevano a ritmo sostenuto. La battaglia dell'«usabilità» fu, all'inizio, combattuta sulla frontiera più ovvia, quella delle interfacce, ovvrossia i dispositivi fisici - tastiera e schermo -, attraverso cui si comunica con il computer, immettendo informazioni nel sistema e ricevendone, sia delle forme di dialogo consentite dati 'hardware e dal software disponibili all'epoca. Se le limitazioni derivanti dall'hardware erano piuttosto pesanti - dialogare attraverso una tastiera e uno schermo di computer non era facile, in un periodo in cui il mouse non era ancora stato inventato e sullo schermo non apparivano invitanti icone di dialogo, ma solo stringhe di testo poco comprensibili ai non iniziati -, le limitazioni che nascevano dai software che regolavano il dialogo tra uomo e computer erano quelle che producevano il maggiore sconcerto negli utilizzatori inesperti. La questione dell'usabilità assunse in un primo momento la forma della richiesta di interfacce «amichevoli», che consentissero anche agli utilizzatori inesperti di apprendere a interagire con il computer senza bisogno di assistenza continua e soprattutto senza il rischio di incorrere in errori gravi. A questa richiesta i progettisti risposero in un primo momento cercando di produrre interfacce «a prova di idiota», in cui fosse quasi impossibile commettere errori «fatali». Questa soluzione non diede però i risultati sperati. In un secondo momento, una risposta più matura sul piano concettuale, e più soddisfacente sul piano pratico, al problema dell'usabilità venne da alcuni psicologi che studiavano lo sviluppo dell'attività umana negli ambienti delle nuove tecnologie. Una figura importante in questa fase fu quella di D. Norman (1988). Al centro del suo lavoro c'era un'osservazione feconda e innovativa: le difficoltà nell'uso dei computer da parte dei nuovi utilizzatori derivava dal fatto che i progettisti erano molto differenti dagli utilizzatori, ma non sapevano di esserlo, e per questo motivo progettavano macchine per persone che non erano fatte come essi pensavano che fossero fatte. La risposta di Norman cambiò radicalmente i termini della questione: non è vero che gli utilizzatori di computer sono degli sciocchi, come non lo sono i progettisti. In realtà, essi appartengono a mondi culturali differenti: non solo hanno conoscenze diverse, ma soprattutto hanno scopi diversi da quelli dei progettisti. Se il progettista prepara un manuale di istruzioni di quattrocento pagine in cui vengono esposte - di solito in modo poco comprensibile all'utilizzatore - le sottigliezze dei vari programmi, la segretaria avrà serie difficoltà non solo nel trovare il tempo per studiare un testo così impegnativo, ma soprattutto nell'entrare nella logica di un manuale centrato sul funzionamento e sulle caratteristiche della macchina (che alla segretaria non interessano più di tanto) invece che sulle attività che deve svolgere con quella macchina. Il discorso di Norman fu accolto con interesse, e diede luogo a un nuovo orientamento sia nella progettazione dei computer che negli studi sulle interfacce. Questo orientamento consistette nel dedicare grande attenzione alle caratteristiche dell'utilizzatore e alla qualità del dialogo che si veniva a instaurare tra lui e il computer. Fiorirono innumerevoli ricerche in cui si cercava di comprendere quali fossero i modelli mentali che gli utilizzatori usavano nelle loro interazioni con il computer, in modo da costruire dei software che venissero incontro agli specifici modi di pensare, di agire e dì comunicare degli utilizzatori non specialisti di informatica. I progettisti si resero conto di non essere rappresentativi degli utilizzatori e ne trassero le conseguenze: chiesero agli specialisti di altre discipline - in particolare agli antropologi sociali e agli antropologi culturali, qualche volta (ma non spesso) agli psicologi cognitivi - di aiutarli a capire chi fossero gli «utilizzatori». La collaborazione tra studiosi di diverse discipline fu, negli anni '80 e '90, una caratteristica degli studi sulla human-computer interaction. Il dialogo tra utilizzatore e computer venne studiato con attenzione e ci si rese conto che lo sviluppo dell'hardware e del software dei primi anni '80 non aveva tenuto conto del fatto che le risorse cognitive, sociali e interazionali dei due dialoganti - il computer e l'essere umano - erano dissimmetriche, e di questo occorreva tenere conto nella progettazione. L'immagine stessa del «dialogo», che suppone l'esistenza di partecipanti con risorse conversazionali comparabili e compatibili, venne messa in crisi dall'analisi dell'interazione che effettivamente avveniva attraverso le interfacce. Si comprese che - nel «dialogo» - erano le risorse cognitive e sociali di cui gli esseri umani disponevano a consentire il recupero delle frequenti interruzioni, malintesi e cadute della comunicazione che si verificavano con frequenza nel corso delle interazioni tra esseri umani e computer. Si comprese, insomma, che era sugli esseri umani che si doveva fare assegnamento per superare le difficoltà di comunicazione. Nel corso degli anni '90, grazie a questi studi, venne compiuto un passo avanti decisivo: si iniziò a comprendere che l'espressione «utilizzatori» era di scarso aiuto sia nella ricerca scientifica che nella progettazione. Da un lato essa era troppo generica per rendere conto degli specifici sistemi di attività in cui gli utilizzatori erano di volta in volta impegnati, dall'altro lato essa supponeva che gli utilizzatori fossero in sostanza degli individui astratti, intercambiabili, privi di legami significativi con gli altri e con l'ambiente. Si incominciò allora a pensare che i destinatari delle nuove tecnologie fossero, invece che utilizzatori decontestualizzati, persone inserite in contesti sociali e organizzativi precisi, e si iniziò a studiarli con metodologie di ispirazione etnografica: gli ambienti di lavoro divennero l'ecosistema in cui l'interazione uomo/computer veniva realizzata e studiata. Un impulso importante a imboccare questa strada venne dall'opera di L. Suchman 1987), un'antropologa culturale che lavorava nei laboratori della Xerox di Palo Alto. L'autrice mostrava, con riferimenti chiari a interazioni specifiche con oggetti tecnologici, che nella vita quotidiana le persone non agiscono in base a piani prefissati rispetto alle azioni che devono svolgere e alle situazioni in cui si imbattono nella vita quotidiana. Al contrario, esse riformulano in continuazione i loro piani, che non sono prescrizioni rigide ma guide per l'azione, per adattarli momento per momento alle esigenze dell'ambiente. La «teoria dell'azione situata» proposta dalla Suchman spostò il focus degli studi sull'interazione uomo/computer dalle caratteristiche del sistema alle caratteristiche del contesto in cui il sistema veniva utilizzato. Una visione adattativa, pragmatica e centrata sull'azione rimpiazzava così la precedente concezione rigida, intellettualistica e astratta degli esseri umani come «menti» isolate e disincarnate. Sullo sfondo si consumava uno scontro di paradigmi, uno slittamento da un quadro di riferimento teorico a un altro: dalla visione della conoscenza umana come elaborazione di informazioni si passava alla visione della conoscenza come costruzione di senso per l'azione adattativa delle persone-in-situa-zione. Le conseguenze dell'adozione di questa seconda prospettiva erano notevoli: ad esempio, essa consentiva di considerare la comunicazione umana non pili nei termini del modello di C. Shannon (centrato su emittente/canale/ricevente e relativi sistemi di codifica e decodifica del segnale), ma nei termini di costruzione congiunta di significato delle situazioni prodotta in collaborazione dai partecipanti a un'interazione. Termini come «terreno comune», «significato condiviso» e «cooperazione» divennero centrali nello studio della comunicazione e - per estensione - di ogni genere di interazione in cui fossero coinvolti esseri umani. La disponibilità di questo nuovo approccio alla comunicazione si rivelò risolutivo nella comprensione dei nuovi ambienti elettronici che iniziarono a comparire con la nascita di Internet. Nel nuovo quadro creato dalla collaborazione tra studiosi di scienze umane e progettisti di computer, meritano di essere segnalati tre filoni di ricerca. Il primo filone è quello della «progettazione partecipativa», nato negli anni '70 nei paesi scandinavi, grazie alla particolare sensibilità locale per la realizzazione di forme di partecipazione «democratica» anche negli ambienti di lavoro, e diffuso poi nel corso degli anni '90 negli altri paesi del Primo mondo. Questo approccio, che partiva dalla valorizzazione dell'apporto degli utilizzatori alla realizzazione di sistemi più «usabili», voleva coinvolgere i lavoratori nella progettazione di sistemi il più possibile « situati» nelle pratiche effettive di lavoro. Tra gli strumenti inventati per favorire la partecipazione, un posto speciale era riservato alla produzione cooperativa di prototipi, su cui i futuri utenti potessero esprimere i loro giudizi a beneficio dei progettisti che ne avrebbero fatto tesoro, la costruzione di modelli a grandezza naturale degli ambienti da realizzare e da modificare in base ai risultati delle simulazioni, la definizione cooperativa delle specifiche dei sistemi. La partecipazione degli utilizzatori ebbe una grande influenza in quanto non solo favori lo sviluppo di sistemi più «usabili», ma permise l'introduzione delle nuove tecnologie in ambienti «speciali» - come ad esempio un ospedale nigeriano - in cui solo una notevole attenzione alla specificità del contesto locale poteva evitare crisi di rigetto. Il secondo filone è quello dello sviluppo, sempre negli anni '90, di sistemi pensati per favorire il lavoro di gruppo o «lavoro cooperativo assistito da computer». I tentativi esperiti in quest'area di applicazione, gli esperimenti condotti da aziende e università, le soluzioni messe alla prova, furono numerosissimi. La posta in gioco era alta, sia sul piano scientifico (modellare la cooperazione umana attraverso le nuove tecnologie), sia su quello progettuale (progettare non strumenti isolati ma piattaforme per la collaborazione fra le persone), con ricadute economiche attese di grande rilievo. Il risultato dell'impegno su questo fronte fu quello di mettere in luce il ruolo centrale del contesto. Accadeva che lo stesso sistema cooperativo venisse accolto con favore e utilizzato volentieri in un'azienda mentre in un'altra, con caratteristiche apparentemente molto simili, esso fallisse miseramente. Le successive indagini rivelavano che il clima organizzativo delle due aziende era diverso, al di là di somiglianze anche notevoli sotto altri profili: mentre nella prima organizzazione le persone erano state incoraggiate a «sperimentare» liberamente i nuovi strumenti per un certo periodo di tempo, nella seconda i nuovi strumenti erano stati introdotti, anzi imposti, in tempi molto brevi. Il risultato era che, mentre nella prima situazione le persone erano riuscite a negoziare delle regole di etichetta per non essere intrusive nell'uso del nuovo sistema cooperativo (che consentiva l'accesso visivo al collega, o al capoufficio, nel momento in cui si interagiva con lui via computer), nella seconda situazione questo adattamento non era avvenuto, e di conseguenza le persone erano restie a usare lo strumento per timore di violazioni della privacy propria e altrui. Il terzo filone, destinato a diventare di gran lunga il più importante nell'ambito dell'interazione uomo/computer, inizia con la nascita di Internet. Prodotto inizialmente dalla collaborazione tra alcune università e laboratori di ricerca statunitensi nel quadro di un programma promosso dal dipartimento della Difesa americano e sviluppato poi grazie alla necessità degli scienziati del Cern di Ginevra (essenzialmente fisici delle particelle) di scambiare immagini relative agli esperimenti in corso, Internet si sviluppò con straordinaria velocità, diventando in breve tempo uno strumento di comunicazione incredibilmente diffuso. La dimensione sociale dell'interazione uomo/computer, che si era ampliata in modo continuativo - a partire dalle prime applicazioni di videoscrittura e archiviazione di documenti per personal computer, previste per utilizzatori singoli, fino alle applicazioni cooperative e all'e-mail - esplode con la comparsa di Internet come nuovo ambiente di comunicazione. Internet esalta l'aspetto sociale delle nuove tecnologie, anche se mantiene delle funzioni che ne fanno un importante strumento di lavoro anche individuale. Ma sono gli effetti «sociali» quelli che hanno attirato maggiormente l'attenzione degli studiosi e del pubblico. Le potenzialità e i limiti del cyberspazio sono stati esplorati e discussi a fondo. Nei primi anni '90 la questione degli effetti sociali di Internet fu oggetto di un vasto dibattito. A studi che mettevano sotto accusa Internet, denunciando un supposto «paradosso di Internet» consistente nel fatto che una tecnologia creata per aiutare le persone a comunicare sarebbe al contrario diventata un fattore di isolamento e persino di depressione (Internet era accusato di aumentare la solitudine delle persone separandole dalle loro comunità naturali di vicinato, di famiglia, di club, ecc.) si contrapposero altri studi, che alla fine risultarono più convincenti, che adottavano una prospettiva «situata» e sostenevano che Internet non «fa» nulla, di per sé - tutto dipende dal contesto. In certi contesti, per certi tipi di utilizzatori, Internet può essere un fattore di liberazione dall'isolamento, di socializzazione (si pensi ad alcune problematiche di persone disabili) e di efficacia personale (empowerment), mentre per altri utilizzatori e altri contesti Internet può attivare forme di dipendenza (si pensi ad esempio alla diffusione del gioco d'azzardo), spaccio per merci di dubbia qualità (si pensi alla diffusione dei siti pornografici), e persino diventare strumento usato da gruppi criminali (si pensi ai siti di scambio di immagini tra pedofili). Particolare attenzione ha ricevuto il fenomeno della creazione di comunità di nuovo tipo, delocalizzate, create intorno a interessi comuni invece che intorno a uno spazio comune come le tradizionali comunità parrocchiali, di scuola, di vicinato, di lavoro. Queste «comunità elettroniche» favoriscono lo sviluppo di gruppi di vario genere, spesso dedicati allo scambio di informazioni anche di carattere personale e intimo. E’ questo il caso di gruppi di conversazione informale in cui le persone confrontano le loro percezioni di eventi sia sociali che privati. Un fenomeno caratteristico delle chat che ha ricevuto grande attenzione da parte degli studiosi e dei media è lo «scambio di genere», in cui un partecipante maschio si finge femmina, o viceversa. La creazione di identità fittizie è stata variamente interpretata: come sperimentazione essenzialmente positiva di nuove forme di identità di genere oppure come inganno e intrusione indebita nella sfera intima delle persone. Le problematiche del cyberspazio evidenziano una trasformazione radicale della tradizionale tematica dell'interazione uomo/computer: non solo la relazione tra persone e computer è sempre più assorbita all'interno di una più generale relazione tra persone, ma soprattutto non si fa più riferimento all'interazione tra un astratto utente isolato e un altrettanto astrattamente isolato computer. Internet è una rete, un ambiente di comunicazione in cui nascono nuove comunità, nuove forme di etichetta, nuovi stili di comunicazione (Riva, 2004). Anche il lessico muta: in Internet le persone non si limitano a «interagire» ma sono coinvolte in modo globale: navigano, si orientano, si muovono in vista di loro scopi - tutti termini che evocano un'ecologia, un ambiente che, per il fatto di essere sintetico, non è per questo meno «reale», nell'esperienza dello persone che lo esplorano. Certo, il cyberspazio è un ambiente più «oscuro», in certo senso più difficile da interpretare correttamente, degli ambienti «naturali». Occorrerà molta esperienza socialmente accumulata e culturalmente trasmessa perché l'uso di Internet diventi più ordinato, più condiviso, più produttivo di quanto sia ora. La più ambiziosa realizzazione del cyberspazio è la realtà virtuale, un ambiente tridimensionale simulato al computer in cui le persone si muovono come se si trovassero all'interno di un ambiente «reale». Nella realtà virtuale l'interfaccia è - in teoria -l'intero corpo umano. In pratica le cose vanno diversamente. Nelle forme di realtà virtuale correntemente disponibili, «immersiva» (con casco) e «non immersiva», l'interazione viene gestita per lo più attraverso i pulsanti di un joystick. Non è tutto il corpo che viene «immerso». Le limitazioni di questi ambienti sono severe: l'esperienza diretta degli oggetti è modesta (è molto complicato introdurre in un ambiente virtuale le sensazioni tattili, manipolare oggetti, sentire odori e sapori), la compresenza e la collaborazione con altre persone nello stesso ambiente di simulazione sono difficili da ottenere, per il carico computazionale gravante sui computer su cui avviene la simulazione, e soprattutto le caratteristiche di fluidità S «situatività» del dialogo interpersonale umano non sono facilmente producibili negli ambienti di sintesi. La fusione in tempo reale, che è così frequente nella vita «reale», della parola, dell'orientamento della persona nello spazio, del gesto di indicare oggetti nell'ambiente su cui far convergere l'attenzione congiunta dei partecipanti all'interazione non è al momento disponibile negli ambienti virtuali. Se la realtà virtuale costituisce una frontiera ancora in parte da esplorare nella costruzione di ambienti cooperativi, un'altra applicazione delle nuove tecnologie informatiche, l'e-learning, ha invece raggiunto una robusta maturità come strumento per l'apprendimento. L'elemento critico nella realizzazione di forme di interazione con l'ambiente e con gli altri, sia che si tratti di ambienti di realtà virtuale, sia che si tratti di cooperazioni affidate a interfacce più tradizionali, come nel caso dell'e-learning, è la capacità di riferirsi al contesto in cui avviene l'attività simulata, in cui le persone che partecipano all'interazione - con e attraverso il computer - portano tutte le loro competenze sociali, culturali e comunicazionali. Il momento in cui gli ambienti di sintesi saranno in grado di fare spazio in modo esauriente ai contesti sociali e culturali in cui le persone operano nella vita di ogni giorno non è ancora venuto, ma il lavoro per integrare in modo efficace le nuove tecnologie nei sistemi di attività delle persone prosegue con buone prospettive. GIUSEPPE MANTOVANI |